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lunedì 8 dicembre 2014

Gente vana?

Lo confesso, quasi mi vergognavo a citare per la millesima volta le celeberrime terzine della “Divina Commedia” in cui Dante qualifica i Senesi come “gente vana”. Poi qualche giorno fa, leggendo su questo blog il reportage dell'Irlandese Volante, mi sono ampiamente ricreduto e sollevato: un ripassino non fa mai male! 


Cominciamo allora: “E io dissi al poeta: <<Or fu già mai/gente sì vana come la sanese?/Certo non la francesca sì d'assai!” (Inferno, XXIX, 121-123). E ancora, se il concetto non fosse stato chiaro: “Tu li vedrai tra quella gente vana/che spera in Talamone, e perderagli/più di speranza ch'a trovar la Diana;/ma più vi perderanno li ammiragli” (Purgatorio, XIII, 151-153).
Nell'Inferno, quindi, la battuta contro i Senesi esce direttamente dalla bocca di Dante, mentre nel Purgatorio a pronunciarla è lo spirito di Sapia, senesissima zia di Provenzano Salvani, che aveva talmente in odio il nipote e tutti i suoi concittadini di parte ghibellina, da pregare affinché venissero sconfitti nella battaglia di Colle val d'Elsa (1269), cui avrebbe assistito dalla cima della torre di Castiglionalto, dimora del marito Ghinibaldo di Saracino. Preghiere esaudite alla grande, non solo perché i guelfi stavolta ebbero la meglio, ma anche perché Provenzano fu brutalmente decapitato durante la cruenta battaglia, suscitando grandissima “allegrezza” nella zia. Il pentimento in punto di morte e le preghiere di Pier Pettinaio la salveranno dalle fiamme dell'Inferno ma Dante la confina comunque nel Purgatorio tra gli invidiosi, sottoponendola ad una pena atroce: il suo spirito si presenta con gli occhi chiusi e cuciti dal fil di ferro, avendo “guardato” con invidia durante la vita terrena.
A differenza di quanto faranno dopo di lui Boccaccio e gli altri, insomma, l'Alighieri definisce i Senesi non pazzi o sciocchi ma “vani”, con l'evidente significato di megalomani, vanagloriosi, affetti da una smisurata ambizione e da improbabili sogni di grandezza. Nella terzina del Purgatorio, in particolare, Dante si fa beffe di due “speranze” che agitavano la Siena a cavallo del Trecento, ossia il tentativo di individuare uno sbocco marittimo per poter incentivare i commerci della città, e la necessità di reperire risorse idriche ben superiori rispetto a quanto potevano garantire i brevi bottini fino allora scavati.
Tralasciamo per ora la ricerca spasmodica della Diana, per focalizzare l'attenzione su Talamone.
Il porto maremmano interessava a Siena da tanto tempo, ma va detto che la concorrenza per accaparrarselo era piuttosto serrata, se già nel 1251 gli Aldobrandeschi, che dominavano l'intera zona, avevano intavolato una trattativa con Firenze (ops...) per la concessione “dell'uso dei porti di Talamone e d'Ercole”. In realtà la proprietà formale del luogo era dell'abbazia di San Salvatore del Monte Amiata, che nel 1303 vendette il porto e Castiglione d'Orcia al Comune di Siena, in cambio di un'ingente somma di denaro, ben 900 fiorini d'oro, e della garanzia che i senesi proteggessero tutti i loro possedimenti. L'acquisto di Talamone, però, non convinceva tutti e dovette suscitare moltissime discussioni in città, che probabilmente andavano avanti da qualche anno e divennero particolarmente aspre negli ultimi mesi della trattativa. E Dante seguì in prima persona questo dibattito sulla fattibilità del progetto, da cui poi scaturì l'ironica terzina, avendo soggiornato per alcuni mesi proprio a Siena nel 1302, dove pare fosse anche quando fu colpito dal provvedimento d'esilio da Firenze. All'inizio del Trecento, insomma, vi fu bagarre per lo scalo portuale né più né meno come secoli dopo capiterà per uno... aeroportuale. Alla fine il Consiglio Generale della Repubblica approvò l'acquisto a maggioranza schiacciante (217 sì contro appena 4 no), ma in verità il partito degli anti-talamonisti doveva essere abbastanza agguerrito e tentò di bloccare l’affare anche dopo che era stato siglato, costringendo la fazione dei talamonisti a riparlarne in Consiglio. Senza successo, però, tant'è che negli anni successivi il Comune si prodigò non poco per restaurare sia il porto che il castello in Maremma.
Furono così vani e imprevidenti i Senesi di allora? Aveva ragione l'Alighieri a dileggiarli per Talamone? Il massimo storico della Siena nel periodo dei Nove, l'americano William Bowsky, afferma che “questo progetto non era una chimera”, e gli stessi mercanti fiorentini spinsero in svariate occasioni, addirittura fino al Quattrocento inoltrato, affinché il loro Comune negoziasse con Siena per l'uso del porto, onde individuare vie commerciali meno care e pericolose di quelle di terra. Sì, perché se l'impresa di Talamone avesse dato fino in fondo i frutti sperati, avrebbe consentito di liberarsi della dipendenza dalla Francigena, troppo spesso bloccata nel tratto superiore da Pisa o dalle continue guerre lucchesi. E la nostra città aveva la necessità di “dialogare” con i mercati del nord Europa, come ben sappiamo. Soprattutto in un momento cruciale come quello, con l'ormai certo e inevitabile fallimento di una delle più ricche e importanti compagnie bancarie di allora, la “magna tavola” dei Buonsignori, il cui catastrofico crollo, già palese nel 1298, anche se fu certificato solo nel 1307, “ebbe serie ripercussioni su tutto il mondo bancario europeo ed i suoi effetti furono risentiti a Siena per circa mezzo secolo”, per dirla ancora con Bowsky (ricorda qualcosa?). Dunque il Governo dei Nove, che non salvò i Buonsignori, data la situazione di estrema difficoltà della principale “banca” senese del Medioevo, pensò che fosse giunto il momento di osare il tutto per tutto, espandendo e diversificando la propria rete commerciale mediante lo sbocco al mare. “L'idea senese era geniale”, esclama Bowsky, “ma il piano era troppo ambizioso”: “Talamone era troppo distante da Siena e non vi era collegata da vie buone e tranquille, ed il territorio fra le due non era sufficientemente sicuro”; inoltre per tutta la prima metà del Trecento il porto fu attaccato continuamente e il suo utilizzo risultò assai difficoltoso.
In definitiva Siena sopravvalutò le proprie forze, non avendo tutte le risorse per mettere in atto un progetto così ambizioso; fece il passo più lungo della gamba e purtroppo gli esiti non furono quelli sperati, anche se non solo negativi, come visto. D'altro canto, in un momento di difficoltà cercò di reagire elaborando un progetto grandioso, con un'impennata geniale, senza peraltro mandare in bancarotta le casse pubbliche.
Gente vana?


Roberto Cresti

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