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sabato 7 maggio 2016

La notte della verità III

Dall’altra parte della città, nel punto in cui la strada delle Tolfe diventa Via di Scacciapensieri, Massimiliano arrestò la marcia della piccola automobile biposto e, addossandosi il più possibile al muro di cinta di un giardino, spense il motore.
Nella tasca interna del costoso giacchetto, il cellulare vibrava all’impazzata. 

Con un gesto annoiato rifiutò l’ennesima chiamata di suo padre e controllando gli avvisi sorrise beffardo: durante il pomeriggio quella merda di Alessandro lo aveva chiamato diverse volte. Con una smorfia perfida pensò al bel regalo che gli aveva confezionato, meravigliandosi nuovamente di quanto fosse facile conquistare una donna. Il pensiero dello sgarro appena arrecato all’odiato collega tuttavia non appagò il suo malessere, che continuò ad aleggiare all’interno dell’abitacolo. Estraendo una piccola ampollina in vetro dal cassetto del cruscotto, cercò il suo sguardo nello specchietto retrovisore e l’espressione arrogante da figlio di papà che vide, non gli piacque affatto. 
Stava vivendo una vita sbagliata, fatta di bugie e promesse disattese, vizi e pentimenti. Nella quale cercava di nascondere al mondo tutte le sue debolezze, trincerandosi dietro ad un mascherone impenetrabile. Sotto la luce asettica di un lampione, rovesciò il contenuto del flaconcino sullo schermo del telefono e con la tessera sanitaria preparò due sottili strisce di polvere bianca. Il fine settimana stava per cominciare e la domenica sarebbe stata lunghissima, soprattutto se affrontata da solo. Pregustando la scossa elettrica in arrivo, si piegò sul sedile del passeggero e tappandosi una narice, tirò voracemente con l’altra. La sensazione di euforia precedette di qualche secondo quella di invincibile benessere, mentre l’amaro della cocaina si mescolava all’aroma del caffè sorseggiato qualche minuto prima. 
"Fantastico", pensò! Leccando lo schermo del telefono, accettò la chiamata di suo padre, sicuramente infuriato per la sua fuga pomeridiana.
"Emiliano, cosa fai? Sei sempre a casa?", chiese suo padre sforzandosi di nascondere l’irritazione. 
Dalla banchina della strada, Massimiliano fece appena in tempo a portarsi la mano davanti alla bocca prima di scoppiare a ridere. Pur essendo uno dei migliori principi del foro della regione, suo padre non riusciva a smettere di aspirare la c: "Quando ti mangi la c non ti si può proprio sentire", esclamò, sapendo benissimo di andare a toccare un tasto estremamente doloroso per il vecchio; che immancabilmente andò su tutte le furie: 
"Dove sei?", ringhiò. "Qui sono tutti arrivati, manchi soltanto tu". 
Altra risata: "È arrivato anche Alessandro?", rispose abbassando la voce, lasciando trasparire una buona dose di malizia. 
"Sta parcheggiando! Tu dove sei?". 
Divertito, il giovane continuò con noncuranza: "È solo?". 
"Sì, precisò il padre, scocciato da quel gioco, "sembra che Laura non si senta bene e abbia preferito rimanere a casa". 
"Ma senti: Laura si chiama?", chiosò con aria innocente il figlio, mentre cercava sulla punta delle dita il sapore di lei. "Va bè. Divertitevi. Io non vengo, tanto il mio regalo gliel’ho già dato". E senza aspettare la risposta chiuse la conversazione, assicurandosi di disattivare anche il vibro. 
Attraverso l’applicazione di Shazam cercò il titolo della canzone ascoltata durante la sua avventura pomeridiana e una volta trovata, collegò il telefono all’impianto dell’auto e attese di sentire le prime note, prima di immettersi nel pigro traffico serale di uno stanco venerdì d’autunno. L’attacco di chitarra avvolse i suoi pensieri mentre il fumo della sigaretta saliva rapida verso l’alto, risucchiato dalla fessura del finestrino leggermente abbassato. "Chiara ho fatto del mio meglio per restare in copertina...". Come fosse prigioniero di un limbo ovattato, guidò senza meta per le strade cittadine: la notte stava per far posto al nuovo giorno, ma dell’alba ancora non vi era traccia. 
All’altezza di Porta Romana abbandonò l’auto nel primo parcheggio disponibile, fregandosene del parchimetro e delle strisce blu. Con le mani in tasca ed il bavero della giacca alzata, camminò per i vicoli deserti fino alla collegiata di Santa Maria di Provenzano. La visione della facciata bianca che emergeva dal silenzio agonico della città narcotizzata lo accolse, riportandolo immediatamente ad un giorno di tanti anni fa, quando insieme al nonno materno decisero di aspettare la fine del Palio seduti sulle panche della chiesa, speranzosi di vedere entrare dalla porta la gente vestita con i loro colori. Un brivido caldo scosse la sua memoria, mentre ripensava all’ultima vittoria condivisa con lui. Scacciando la nostalgia, voltò le spalle alla chiesa e tornò lentamente sui suoi passi. Non sapeva che ore fossero e francamente non gli importava di saperlo. Improvvisamente la sua attenzione fu attratta da un piccolo locale, seminascosto alla vista da uno strano gioco di ombre dei palazzi circostanti. Varcando la soglia lesse sull’insegna “L’angolo di Michela” e osservando l’interno si chiese a voce alta: "Che posto di merda è questo?". Da un punto imprecisato all’altro capo della stanza, una vocina stizzita lo avvertì che il locale stava per chiudere. Fregandosene, Massimiliano si accomodò su uno sgabello di ferro ricoperto da un cuscino di stoffa rossa e ordinò da bere, parlando a nessuno. 
Alzandosi di scatto da sotto al bancone, Michela lo guardò di traverso e dopo essersi pulita le mani al grembiule annodato sui fianchi, replicò: "Non hai sentito? Sto per chiudere". 
Come se niente fosse, Alessandro estrasse dal portafoglio una banconota da 100 euro e appoggiandola sul bancone, ripeté la richiesta: "Dammi da bere". 
"No", ribadì Michela, "è tardi e ho già sforato con l’orario. Se passano i vigili mi fanno il verbale. 
"Che città di merda", sibilò Massimiliano, dirigendosi verso la porta con l’intenzione di chiuderla. "Ora siamo chiusi", disse riferendosi all’ingresso. "E tu puoi darmi da bere". 
Rassegnata, Michela afferrò uno shaker e scosse la testa: "Uno solo e te ne vai! Capito? Cosa ti servo?".
"Rum", affermò il ragazzo stravaccato sul bancone. 
"E cosa ci faresti in giro a quest’ora, da solo?", incalzò diffidente la donna, mentre versava il distillato all’interno di un piccolo bicchiere di vetro scuro. 
"Oscillo", rispose Massimiliano. 
"Che fai?", chiese incuriosita dalle parole del bel ragazzo, piombato all’improvviso proprio all’ora di chiusura. 
"Oscillo sulla mia vita senza sapere cosa fare. Hai presente quando ti svegli al mattino e non sai come passare la giornata?".
Lei fece segno di sì con il capo. 
"Ecco", continuò lui, "io sono trent’anni che mi sento in quel modo. E non ne posso più". 
Silenzio. 
"Dammene un altro", ordinò indicando la bottiglia, "e lasciala qui", aggiunse picchiettando il palmo della mano sul legno liscio del bancone. 
La ragazza obbedì senza protestare. 
Dopo aver scolato innumerevoli bicchieri in silenzio, riprese a parlare: "Io l’avevo trovata la mia strada. Lontano da tutto e da tutti. Lontano dalla gente di questa città, che continua a litigare anche se non c’è rimasto più niente. Lontano da queste mura cadenti ricoperte di calce fresca, dalla polvere nascosta sotto i tappeti e dal benessere di facciata delle ostentazioni forzate. Invece vivo la vita che gli altri hanno voluto farmi vivere e passo le giornate praticando un mestiere che detesto. In questi giorni mi stanno obbligando a curare il passaggio di proprietà della Robur Siena: vogliono che mi sforzi di gestire al meglio gli interessi dei nuovi acquirenti. Non capiscono quanto mi faccia schifo tutto ciò!". 
"Sei fidanzato?", chiese lei impertinente, pentendosi immediatamente della domanda, che a quell’ora della notte poteva suonare come un invito. 
"No, non lo sono! Ma lo sono stato". E senza aspettare la sua risposta continuò, libero finalmente di parlare senza freno: -"L’amavo davvero sai? Si chiamava Samantha ed era poco più grande di me. Stavamo insieme da qualche tempo e avevamo deciso di andare a convivere a Bruxelles. Eravamo felici". 
"E poi?", chiese lei con un filo di voce. 
Visibilmente scosso da ciò che stava per rivelare, Massimiliano continuò, farfugliando: "E poi lei rimase incinta e io non volevo un figlio. Quella sera pioveva forte e un grosso camion sbucò dal nulla. Eravamo felici e forse ci saremmo amati per sempre, ma lei continuava a gridare dopo lo schianto, mentre io cercavo disperatamente di tirarla fuori dalle lamiere". Gli occhi velati e iniettati di sangue accentuarono la gravità delle parole. "Mi ero appena fatto di coca. Fu colpa mia! Anche se le influenti amicizie di mio padre riuscirono a dimostrare che non c’ero io al volante". 
Silenzio. 
"Durante il processo mi venne ordinato di tacere e io non fui in grado di oppormi. Rimasi impassibile mentre il giudice leggeva la sentenza, inchiodato al suolo dagli occhi spenti del camionista, rassegnato ad un destino scontato e scritto da altri. Lei aveva commesso lo sbaglio di amarmi e io l’ho ammazzata. E mentre la vita abbandonava il suo corpo, l’ho lasciata morire senza muovere un dito". 
Quelle ultime parole avevano profondamente colpito Michela, che era rimasta impietrita di fronte a quella confessione del tutto inattesa. Senza farselo chiedere riempì il bicchiere del suo ospite e chiese: "Hai provato a lasciarti tutto alle spalle?". 
Sorridendo, il giovane rispose schietto: "Non ce la faccio a riempire il buco lasciato dalla sua assenza: ci provo tutti i giorni, sai? Salendo e scendendo letti di mezza città, passo da un eccesso ad un altro, di continuo, senza sosta. Le mie giornate sono talmente assurde che non distinguo più gli incubi dalla realtà. Oggi pomeriggio ho fatto sesso con una tizia che a malapena conoscevo, soltanto per fare schifo al suo fidanzato. 
"Proprio come la mia amica Laura", aggiunse Michela, pensando a voce alta. 
Massimiliano alzò di scatto la testa, riemergendo dall’abisso di disperazione in cui stava precipitando e la guardò incredulo: "Che hai detto?". 
"No niente, scusa, parlavo della mia amica La…". 
Ma il nome le morì in bocca, nel momento in cui capì che stavano parlando della stessa persona...
 

Siena – Ancona: come alunni nell’ultimo giorno di scuola, ringraziamo il signore di essere finalmente giunti alla fine. È l’ora di suonare la campanella! Andate e moltiplicatevi: lontano da Siena però!

Tutti uniti insieme avanzeremo!


Mirko

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