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martedì 12 settembre 2017

Argento e Oro

Pensieri stropicciati sopra un letto di emozioni. Il campo è lo specchio del cielo: in pochi attimi tutto muta, cambia e va.
E l’immobilismo dell’agosto svanisce, sbiadendo rapidamente in un lontano ricordo. Coda d’estate e testa d’autunno; più che una stagione, sembra una distilleria di grappe. Foglie gialle, ombrelli pronti.

La mente vola via mentre l’anima rimane immobile, intrappolata nel guscio ancorato al seggiolino stinto dal sole e dal passare inesorabile di quel "tempo" bifronte: parente del meteo e figlio di Crono. Allacciatevi le cinture, si parte. "Ok ragazzi, si va in alto", diceva l’omino dei calcinculo quando ero piccino.
E l’arbitro fischia l’inizio.
Abbiamo tanto tempo e tanto spazio. Attacchiamo in su, verso San Domenico, sotto la curva degli ospiti. Che, per non puzzare dopo tre giorni, non sono venuti. Il pomeriggio sbuffa, arranca, stride. Sembra una pezzo di un manifesto futurista letto ai tempi della scuola. Ma non lo è. Le nuvole si aprono, fuggono, ritornano. Danzano sul vento come surfisti di Maremma. Alla fine, esauste, provano a soffermarsi sopra le tribune. Caldo, poi fresco. Grida e silenzio. Gioia e angoscia. Felicità e frustrazione. Il tempo attacca lo spazio, ma lo spazio resiste. La gente si copre, si veste, sorride. Oggi si vince. E il tempo non passa mai. No, si pareggia. Oddio: si perde! E il tempo vola. Meno male s’è ripareggiato. Gran goal: sembra un diamante tanto è bello. 2 a 2. Questo tempo fa cappellaccio. Quanto manca? Non lo so e non importa, già così è un punto d’argento.
Il tempo prende il sopravvento sullo spazio. Pare un ciclista all’ultimo scatto dopo una giornata passata a rampicar tornanti. Gocce di sudore salato si staccano dalla fronte e precipitano verso la bocca. Sete. La gente ai lati della strada grida. Lo tocca e lo spinge correndogli accanto. Dall’ammiraglia arriva una voce che suona tipo avvertimento. O forse è soltanto la mente obnubilata dalla fatica che la fa sembrare così. Lo spazio capitola, tagliato in due dalla parabola di una palla bianca che, a guardarla bene, forse ha la coda, come una cometa. Area intasata. Le maglie gialle sembrano più numerose di quelle bianconere. Mamma mia che fatica. Fatica di testa, fatica di corpo. Avessi giocato, io sarei meno stanco. Mi emoziono, ripenso, mi emoziono ancor di più. Scrivo molto e cancello poco. E poi metto troppi punti e poche virgole. Anche perché con le virgole non si fa la classifica. L’azzurro cozza contro il verde del campo. E, invidioso della maglia del nostro portiere, si rinasconde dietro ad un muro di nuvole grigie. Molto più minacciose di quelle di prima. Ad un tratto sembrano accorgersi del campo e puntano dritte verso di noi. Per rovesciarci sopra il loro carico d’acqua temo, giusta punizione per la partita buttata via. "Come in cielo, così in terra", in un’alternanza mistica blasfema, a metà tra il sacro e profano. E il risultato muta con il variare del tempo, occupando uno spazio diverso nei nostri pensieri. La gente fuori dallo stadio passeggia inconsapevole. In fondo è soltanto un’altra stupida domenica di settembre. Triste e inutile come una sigaretta elettronica. Domenica, giornata di ozio. Mi piace questa parola, così rotonda e così corta, veloce e breve: come la domenica vista dal lunedì. "Tre volte sulla polvere tre volte sull’altar". Il romanticismo si impossessa del mio cuore. Che c’entra adesso il Manzoni con la Robur? C’entra, e come se c’entra! Alti e bassi. Quanto manca? Poco. Chissà perché, manca sempre troppo poco. Per tutto. I minuti gocciolano via come acqua da un rubinetto difettoso. Diffondendo nell’aria quel senso di fastidioso disagio, simile ad uno scricchiolio nel cuore della notte. Che seppur lieve, impedisce di dormire. Centinaia di occhi seguono la palla. Occhi famelici, speranzosi, in attesa. Anche le nuvole ci ripensano: non è certo questo il momento di piovere. Il tempo adesso pare arrestarsi in mezzo ad uno spazio sterminato. Tanto è sempre una questione di tempo. E di spazio. "Quanto manca", chiedo? Non ho nessuno intorno. Me la canto e me la suono. Come cambiano le cose in pochi mesi. La gente ha le mani rosse. "Anno - senz’acca - queste partite le perdevi tutte", mi fa un tizio sulla sessantina seduto dietro di me. "No, perché due anni fa si vincevano", gli faccio eco io, senza distogliere lo sguardo dal campo. Manca poco, davvero. Forse troppo. Il 9 loro pesa come un Quaschai e dalla stazza credo consumi il doppio. Sembra un Golia in mezzo a tanti David. Argento. Un punto d'argento. L’ho già scritto, ma adoro ripetermi.
La palla arriva in area. Sotto la curva buona. Adesso si attacca in giù. L’angoscia si placa mentre la palla rimbalza. Stop, tiro, bum. Il film potrebbe finire qui. Leone, logicamente d’argento, alla Mostra del Cinema. Titoli di coda. Ma poi la scena continua e la palla punta verso la porta. È goal? No! Perché? Respinta sulla linea! Me era dentro? No. Ci vorrebbe il Var. Oppure mi accontenterei di un bar. Per berci sopra e brindare ad un qualcosa di nuovo che parte da lontano. Sì, ma la palla che fine ha fine ha fatto? Boh. Intanto il tempo è finito. Eccola la vedo, sta ritornando verso il campo. Rotola a pochi passi da quella striscia di gesso bianco. All’improvviso arresta la sua corsa e torna indietro. Sembra un’immagine al videoregistratore. Meno 4, 3, 2. Non è l’ultimo dell’anno e non si vedono bottiglie di spumante. La palla entra. Il cuore ha un sussulto. E torno ad essere il ragazzino che correva giù per la curva Jolly ad ogni goal di Bresciani. Spazio e tempo non contano più. Potremmo essere negli anni '90, oppure in Serie A. 3 a 2. L’arbitro fischia la fine. In curva la gente si abbraccia come gli ingegneri della Nasa dopo un lancio andato a buon fine. Argento vivo nelle vene. Buonumore e voglia di sorridere.
Per una sera sputiamo via lontano una parte di quella merda amara ingoiata negli ultimi tempi. Prima di pulirsi le labbra con la manica della camicia e provare a togliersi di bocca quel gusto acre di carogna che da troppo tempo aleggia su di noi. Tre fischi: è finita. Beviamo in silenzio. E anche l’acqua ci sembra più buona. Incassiamo una vittoria insperata quanto preziosa, in attesa di capire cosa ne sarà di noi e comprendere se questo argento potrà mai diventare oro. Beviamo e godiamoci il momento perché, come cantava quel tale. "l’argento sai si beve ma l’oro si aspetta".

Siena - Arzachena: giochiamo contro una nostra rima baciata e manca poco ci restiamo secchi. A volte il vento cambia nei momenti più impensati. A volte basta un niente e un paio di caselline vanno a posto. È il momento di tornare allo stadio. Anche in trasferta. A partire da domenica.

Tutti insieme uniti avanzeremo.


Mirko

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